Il nuovo portale del Sistema Scientifico e dell’Innovazione del Friuli Venezia Giulia contiene un'importante novità: una sezione dedicata a dati, facilmente leggibili, aggregati, estraibili e condivisibili, relativi al numero e alla tipologia di ricercatori, docenti e studenti presenti negli Enti di Ricerca rientranti nel Network. Tali dati, resi disponibili in modo aperto, ci permettono di approfondire i concetti di “Open data” e “Open Access” con la collaborazione della dott.ssa Elena Giglia, Responsabile Ufficio Accesso Aperto ed Editoria Elettronica dell’Università degli Studi di Torino.

 

Che cosa significano esattamente “Open Access” e “Open Data” e perché sono diversi?

Open Access e Open Data sono due tasselli della Open Science, un concetto-ombrello che sta cambiando il modo di fare scienza in Europa e nel mondo: significa aprire l’intero processo della ricerca e mettere a disposizione di tutti ogni passo, dai testi ai dati al software agli interi protocolli. “Open Data” di solito si riferisce ai dati aperti ma in ambito di amministrazioni o aziende di pubblico servizio (si pensi agli orari dei bus o dei treni su cui vengono costruite App per il cellulare), mentre in area scientifica si parla di “Open Research Data”. Il concetto non cambia: si mettono i dati della ricerca a disposizione di tutti, perché possano essere appunto riusati. Il tutto, ovviamente, con le appropriate licenze che garantiscono la proprietà intellettuale. “Open Access” significa invece accesso libero e gratuito, senza barriere di sorta, ai testi degli articoli scientifici, nel rispetto delle norme di copyright.

 

Quali sono le modalità per la pubblicazione di una ricerca in Open Access e in che cosa consistono?

Ci sono due vie per rendere Open una ricerca, e la pubblicazione è una di queste: viene definita la “Gold road”. La pubblicazione su riviste Open Access comporta – nel 27% dei casi – il pagamento delle APC, Article Processing Charges, spese di pubblicazione che vanno a coprire i costi di edizione degli editori Open, che non hanno come modello economico quello degli abbonamenti. Premesso che ci sono anche altri modelli di business possibili in Open Access – per esempio consorzi di biblioteche che finanziano le pubblicazioni -  le APC hanno la stessa logica del francobollo: le spese vengono pagate dal mittente (in questo caso l’autore, o meglio la sua istituzione) ma sono pagate una volta e per sempre, mentre gli abbonamenti alle riviste tradizionali vengono pagate da ogni ateneo, ogni anno, e ogni anno con aumenti vertiginosi. Le riviste Open differiscono dalle altre solo per il modello economico, che consente a tutti di leggere. Se pubblicate da editori seri conducono una peer review più trasparente, hanno piattaforme più innovative, offrono servizi più avanzati e misurano le citazioni a livello di articolo, cosa che il famoso Impact Factor non fa.

La seconda via per fare Open Access è il deposito, conosciuto anche come “Green road”. L’autore continua a pubblicare sulle riviste di riferimento, quelle più prestigiose nel suo settore, quelle con alto Impact Factor se così richiedono i criteri di valutazione della ricerca, e poi rende disponibile la sua versione finale depositandola negli archivi Open Access. Si può fare subito, a costo zero, e ha l’enorme vantaggio di non dover cambiare sede editoriale, consentendo quindi agli autori di adeguarsi – spesso loro malgrado – alle scelte delle agenzie di valutazione. Il deposito è consentito dal 70% degli editori tradizionali – tutti i maggiori -, le cui politiche si possono consultare nella banca dati SHERPA-RoMEO: solitamente, viene consentita la versione finale o post-print e non il pdf editoriale come pubblicato, e spesso vengono richiesti alcuni mesi di embargo, ovvero un periodo in cui l’articolo pur depositato non è visibile al pubblico. La differenza fra post-print e pdf editoriale è solo di forma, nell’impaginazione, perché il contenuto è identico. I post-print vengono depositati senza violare il copyright in archivi Open Access che possono essere istituzionali (in Italia ogni Ateneo ne ha uno) o disciplinari, come il famoso arXiv dei fisici. Research Gate o Academia.edu non sono archivi Open Access ma servizi commerciali: oltre a violare sistematicamente il copyright – sono stati costretti a novembre 2017 a chiudere l’accesso a tutti i pdf editoriali – sono appunto imprese commerciali. Il giorno in cui non fossero più economicamente vantaggiose chiudono, e che ne sarà del materiale depositato? Al contrario, gli archivi Open garantiscono la conservazione sul lungo periodo e un identificativo univoco per i lavori, oltre al servizio “Chiedi all’autore” in caso sia impossibile depositare.

Le riviste nativamente Open Access non vanno infine confuse con le riviste ibride, ovvero riviste di editori commerciali tradizionali (Elsevier, Wiley, Springer…) che offrono una opzione “Open”: significa che la rivista resta in abbonamento, ma quel singolo articolo diventa Open dietro pagamento di cospicue APC, Article Processing Charges. È un’opzione da sconsigliare vivamente perché ingenera un doppio pagamento (abbonamento e APC), anche se è l’unica scelta possibile in Horizon2020 a causa dei periodi di embargo massimi consentiti dalla Commissione Europea, inferiori a quelli stabiliti dagli editori.

 

Quali sono i vantaggi della strategia “Open Access”?

I vantaggi sono evidenti: poiché la scienza è un processo cumulativo, se si mettono i risultati delle ricerche a disposizione di tutti la conoscenza progredisce prima. Avere i risultati liberamente disponibili favorisce anche l’approccio interdisciplinare, che è essenziale per rispondere a sfide globali quali il cambiamento climatico. Avere anche i dati a disposizione rende la scienza più solida e riproducibile. Non dimentichiamo poi che l’Open Access di basa sul principio per cui i risultati delle ricerche finanziati con i fondi pubblici devono essere pubblicamente disponibili, con un vantaggio enorme anche in termini di trasparenza sull’uso di denaro pubblico. Per i ricercatori, i vantaggi si traducono in un’accresciuta circolazione dei lavori e quindi potenzialmente in un incremento di citazioni e di riconoscimento delle competenze: non dimentichiamo che nessun autore di articoli scientifici viene retribuito economicamente, il ritorno atteso è appunto in termini di prestigio. Per i finanziatori, la massima circolazione si traduce in un maggior ritorno sugli investimenti. Per la società intera, l’accesso ai risultati delle ricerche ha benefici enormi: si pensi alle piccole e medie imprese che possono finalmente leggere ricerche finora chiuse dietro abbonamenti che nessun privato può permettersi, o ai medici che possono leggere e curare meglio, ai professionisti e agli insegnanti che possono aggiornarsi. Non a caso la Commissione Europea ha compiuto una scelta decisa verso la Open Science, proprio perché la scienza sia sempre al servizio dell’innovazione e della crescita. Sta per nascere – e sarà finanziata con oltre 4 miliardi di euro – la European Open Science Cloud (EOSC), un ambiente virtuale in cui si incontreranno produttori di dati, fornitori di servizi e aziende che fanno innovazione.

 

Quali sono le richieste di Horizon 2020 in materia di Open Access?

In Horizon2020 c’è l’obbligo di rendere disponibili sia i testi (da subito) sia i dati (da gennaio 2017) di tutti i progetti finanziati.

Per i testi, è necessario prima depositare al momento della pubblicazione il lavoro in un archivio Open Access, per motivi di conservazione a lungo termine; il deposito va fatto sempre, anche se si pubblica su una rivista Open, perché i fini sono appunto diversi (conservazione e non disseminazione). Specifico perché è scritto esplicitamente che Research Gate o Academia.edu non sono considerati archivi Open. Occorre poi rendere l’articolo disponibile entro 6 mesi nelle scienze esatte e 12 mesi nelle scienze umane e sociali. Qui sorge il problema: i periodi di embargo previsti dalle politiche di copyright degli editori nella citata banca dati SHERPA RoMEO sono di solito superiori. In questo caso non resta che o pubblicare su una rivista nativa Open Access o scegliere l’opzione Open delle riviste tradizionali. Tutte le spese di pubblicazione sono rimborsate nei progetti europei, purché previste nel budget iniziale sotto lo specifico capitolo di spesa.

Da gennaio 2017 è necessario rendere aperti anche i dataset su cui si basano gli articoli pubblicati. I dati vanno depositati in archivi “trusted”, quali per esempio Zenodo, l’archivio multidisciplinare gestito dal CERN di Ginevra. I dati vanno correlati possibilmente del software per leggerli e interpretarli, anch’esso da depositare. Ai dati va associata una licenza che ne garantisca il riuso, anche per scopo commerciale (si possono utilizzare le Licenze Creative Commons). Dati e testi in Horizon2020 devono conformarsi ai principi FAIR, ovvero Findable, Accessible, Interoperable, Reusable: da qui l’importanza di avere buoni metadati – i dati bibliografici descrittivi che permettono appunto di trovare i lavori o i datasets – e licenze che garantiscano il riuso.

 

Si può pubblicare in Open Access e comunque proteggere i diritti di proprietà intellettuale sulla ricerca svolta?

Certo, in entrambe le vie. La corretta attribuzione di paternità intellettuale è l’unico requisito presente in tutti i manifesti dell’Open Access, come la Dichiarazione di Berlino. Il deposito non viola mai le politiche di copyright degli editori, che appunto vanno controllate nella banca dati di riferimento, SHERPA RoMEO. A differenza degli editori commerciali, che chiedono sempre la cessione del copyright, per articoli e dati Open si possono usare le Licenze Creative Commons, nate per il digitale: l’autore sceglie quali diritti concedere al lettore. Il deposito in Open Access del pre-print (la prima bozza dell’articolo, ancora priva dei commenti dei revisori), che si sta diffondendo in tutte le discipline, è anzi una garanzia ulteriore contro il plagio: depositare in un archivio significa certificare a quella data di essere gli autori del lavoro.